mercoledì, ottobre 04, 2006

Commercialista Olbia LA DELEGA FISCALE


Commercialista Olbia LA DELEGA FISCALE
1. Caratteristiche generali della legge delega
Fatta eccezione per l’imposta sulle società, e in misura minore per l’IRPEF, il disegno di legge non sembra avere i contenuti minimi per essere considerato un disegno di legge di delega. Con riferimento alla codificazione tributaria, alla soppressione dell’IRAP, e alla riforma delle altre imposte i criteri indicati sono per la maggior parte evanescenti e difficilmente potranno svolgere la funzione di limite, indirizzo e orientamento dell’esecutivo nella redazione dei decreti delegati. Per esempio:
- per quanto riguarda la codificazione (articolo 2), i criteri di delega, non sono altro che la pedissequa ripetizione dei principi costituzionali di uguaglianza, legalità, capacità contributiva e delle regole di buona fede, affidamento, divieto di analogia e irretroattività, già ampiamente disciplinati dalla recente legge sullo statuto dei diritti del contribuente;
- l’articolo 5 sull’Iva si limita a richiamare genericamente le direttive comunitarie senza alcuna ulteriore specificazione. Con la normativa comunitaria appare peraltro in contrasto l’obiettivo di ridurre gli effetti di duplicazione tra Iva e accise;
- la stessa riforma dell’IRPEF (articolo 3) si limita, alla mera indicazione di valori astratti e alla rinfusa, non meglio specificati, come “famiglia, casa, sanità, istruzione, formazione, ricerca, previdenza” e alla manifestazione del mero proponimento di trasformare le attuali detrazioni in deduzioni decrescenti col reddito, senza ulteriori spiegazioni. Nonostante l’indicazione degli scaglioni di reddito, l’incidenza dell’imposta sui singoli contribuenti rimane ignota, così come misteriosi rimangono i tempi di attuazione.

Va anche sottolineato che la riforma delle tasse sugli affari e le accise (articoli 6 e 7) prevede sostanzialmente l’accorpamento sotto una unica etichetta di tributi oggi separati (e che continueranno a restare separati, al di là dei nominalismi di facciata). La tecnica è la stessa (capovolta) utilizzata da Tremonti anni fa per sostenere che in Italia esistevano 100 tasse: in quel caso infatti ogni singola voce dell’imposta di registro, di bollo o sulle concessioni governative, veniva considerata una imposta autonoma, ora si fa il contrario: le tasse aumentano o si riducono a seconda della convenienza propagandistica.

La astrattezza e la vacuità o, in alcuni casi, la scarsa attendibilità dei presunti criteri di delega inducono a considerare la proposta del Governo più come una legge “manifesto” o “quadro” che come una legge delega in senso stretto. Siamo cioè in presenza dell’ennesima operazione propagandistica priva di possibilità di verifica e riscontri concreti; a generiche proposizioni politiche interpretabili nei sensi più diversi, e non ad una legge che indica limiti e criteri sufficientemente definiti per costituire una valida guide line per l’esecutivo.
Anche se si accettasse sul piano formale la natura di legge delega, quest’ultima sarebbe comunque talmente astratta da poter essere considerata per la maggior parte in “bianco” e inevitabilmente generatrice di una indebita discrezionalità del legislatore delegato tralucentesi in un autentico esproprio della funzione legislativa del Parlamento. In proposito sarebbe sufficiente confrontare la delega attuale con le deleghe fiscali del Governo di centro sinistra che suscitarono vibrate quanto infondate proteste, e che allora Tremonti, con sbalorditiva improntitudine, accusò di genericità.


2. Copertura finanziaria

Nessuna necessità di copertura è prevista per la riforma delle accise e delle tasse sui servizi. Per quanto riguarda, invece, la riforma dell’IRPEF, dell’IRPEG, dell’IRAP, dell’Iva e della tassazione delle rendite finanziarie, il disegno di legge è reticente, ambiguo ed elusivo, e stravolge comunque le rigide, quanto opportune, regole sulla copertura finanziaria stabilite dalla legge n. 468 del 1978 e dalla prassi parlamentare di questi ultimi venti anni. Si tratta di un fatto di gravità eccezionale e senza precedenti, considerata anche la dimensione eccezionale (4-5 punti di PIL) delle riduzioni di imposta promesse. Altrettanto grave è l’assenza di ogni relazione tecnica.
Entrando nel merito non si capisce come possa il Governo affermare, nell’articolo 9, comma 2, che dall’attuazione di tali riforme “non possono derivare oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato”, considerato che queste stesse riforme sono dirette espressamente ad abolire tributi e, comunque, a ridurre aliquote e spesso a restringere basi imponibili. Di conseguenza pare scontato che:
- La riforma dell’IRPEF determinerà una diminuzione del gettito che nella migliore delle ipotesi (per il Governo) ammonterà a 40-45.000 miliardi di lire (20-23 miliardi di €), ma potrebbe anche costare molto di più;
- Un minor gettito di circa 60.000 miliardi di lire (31 miliardi di €) deriverà sicuramente dall’abolizione dell’IRAP (che si riduce a 35.000 miliardi di lire (17 miliardi di €) circa se il Governo si limiterà ad eliminare dalla base imponibile il costo del lavoro). Al riguardo lo stesso articolo 9 prevede che il minor gettito per le Regioni derivanti dalla riforma dell’IRAP sarà compensato con maggiori trasferimenti o compartecipazioni a tributi erariali;
- Anche la riforma dell’IRPEG (tassazione di gruppo; esenzione delle plusvalenze) potrebbe determinare una rilevante perdita di gettito, a meno che il Governo non decida di allargare la base imponibile riducendo l’entità degli ammortamenti e la deducibilità degli interessi.
- Un costo non irrilevante conseguirà anche dalla riduzione della base imponibile dell’Iva, dall’abbassamento al 12,5% dell’aliquota, oggi al 27%, su molte attività finanziarie (depositi bancari e strumenti a breve), dal passaggio della tassazione dei capital gains dal “maturato” al “realizzato”, nonché dal rinvio della tassazione sui fondi di investimento al momento della cessione delle quote.

Nonostante le affermazioni del Governo, i decreti attuativi della riforma comporteranno, quindi, sicuramente oneri finanziari di rilevante importo.

Per parare questa eventualità il secondo periodo dello stesso comma 2 dell’articolo 9 dispone che “nel caso di maggiori oneri, il ministro dell’Economia e delle Finanze, dopo averne dato tempestiva notizia al Parlamento, assume le conseguenti iniziative, predisponendo (…) un apposito decreto che, variando opportunamente le aliquote delle singole imposte, corregge l’andamento del gettito per ripristinare la situazione di invarianza”. Ma è evidente che questa disposizione disciplina una inammissibile modalità di copertura a posteriori: si provvederà cioè alla copertura finanziaria solo dopo che si sarà accertata l’eventuale emersione di oneri, con un singolare capovolgimento del significato dell’articolo 81 della Costituzione. Si vanificano così, in un contesto normativo di carattere fiscale, decenni di sforzi di tutti i Governi diretti a garantire che ogni legge prima di entrare in vigore, sia provvista di adeguate coperture finanziarie. Questa norma, inoltre, è chiaramente incostituzionale perché attribuisce al ministro dell’Economia e delle Finanze la facoltà di aumentare a suo piacimento, e con suo decreto, tutte le imposte, con buona pace del principio di riserva di legge (art. 23 della Costituzione). “No taxation without representation” usava dire il ministro dell’Economia, ed ora!?
Inoltre, la disposizione appare contraddittoria, perché, se uno dei più importanti obiettivi del disegno di legge delega è la riduzione della pressione fiscale, la previsione di variazioni in aumento delle aliquote per far fronte alla riduzione stessa annullerebbe tale obiettivo.
Concedendo la delega al Governo con le modalità di copertura sopra indicate, il Parlamento è dunque indotto a derogare le corrette procedure della legge n. 488 (e dell’art. 81 della Costituzione), che invece richiedono una copertura ex-ante e non ammettono, nella quantificazione degli oneri, l’inclusione degli effetti indiretti degli sgravi sull’economia. C’è anche da chiedersi se operando in questo modo il Governo non stia in realtà abrogando queste norme. Del resto la relazione di accompagnamento è molto esplicita nella “insofferenza” per le coperture ex-ante e nella fiducia nella espansione spontanea delle basi imponibili. Si potrebbe così aprire la strada a sgravi fiscali di tipo supply side disposti senza copertura “tradizionale”, ma basati sulla speranza di indurre maggiore crescita nelle basi imponibili e quindi maggior gettito.
Sempre in relazione ai profili di costituzionalità, va rilevato che non è previsto alcun collegamento della riforma con il nuovo titolo V della Costituzione: infatti, anche se vengono riformati solo i tributi erariali si sarebbe dovuto tener conto del fatto che lo Stato ha competenza normativa esclusiva in tema di fissazione dei principi fondamentali del sistema tributario nel suo complesso, e concorrente con le Regioni quanto al coordinamento di tale sistema. Ad esempio, è discutibile che una legge statale possa abolire l’IRAP senza l’“accordo” delle Regioni e che lo Stato possa rinunciare, anche se solo temporaneamente, a fissare i principi fondamentali che presiedono allo svolgimento della potestà di imposizione da parte delle Regioni stesse. Ed ancora: la trasformazione delle deduzioni altera profondamente il gettito delle addizionali regionali e comunali che si applicano al reddito imponibile a fini IRPEF (che in seguito alla riforma risulterebbe fortemente ridotto). Ancora una volta si incide sulla autonomia impositiva e finanziaria di Regioni, comuni e province, ignorando sia la nuova costituzione che le conseguenze finanziarie delle norme proposte.


3. Irpef

La riforma delineata nella proposta di legge delega presentata del governo, per quanto ancora generica nei dettagli tecnici di applicazione, appare nei suoi principi fondativi di forte impatto sul sistema fiscale italiano.

Essa infatti configura un regime di flat tax estremo per cui oltre il 99% dei contribuenti sarebbero sottoposti ad un’unica aliquota. Già da queste premesse è facile preconizzare una non neutralità distributiva della riforma, a tutto vantaggio dei redditi più elevati. In particolare è a rischio la natura progressiva del sistema, affidata esclusivamente alla modulazione delle deduzioni. Tale rischio deriva non solo dalla unicità della aliquota, ma soprattutto dal suo livello troppo ridotto, e che non ha riscontro nelle legislazioni di altri Paesi.

La riforma si basa su due principi chiaramente enunciati nella proposta di legge:
- la riduzione del numero di aliquote a due, 23% fino a 100.000 € e 33% oltre tale limite: in altre parole l’aliquota più bassa aumenterebbe di 5 punti (dal 18 % al 23 %) e quella massima si ridurrebbe di 11 punti (dal 44% al 33%).
- la sostituzione delle attuali detrazioni con un regime di deduzioni, applicabili sia per i carichi familiari (definiti in base alla situazione economica dell’intero nucleo familiare) sia per le spese per beni meritori (sanità, istruzione, mutui, canoni di locazione e assicurazioni). Tali deduzioni dovrebbero beneficiare in misura più rilevante i soggetti a reddito più basso.

Il cambiamento dell’impianto normativo risulta radicale se confrontato con il sistema attuale che prevede cinque aliquote e un articolato sistema di detrazioni differenziato per cespiti. Poiché il sistema attuale risulta di fatto premiante per i redditi più bassi, ogni modulazione della riforma che preveda una maggiore semplificazione della struttura delle detrazioni (ovvero maggiore omogeneità di trattamento per i diversi livelli di reddito) comporterà sia una maggiore perdita di gettito che una minore progressività del prelievo rispetto alla situazione attuale, procurando ulteriori distorsioni distributive a carico dei soggetti più deboli.

Il nodo chiave, ancora non compiutamente espresso nel testo della delega, riguarda la struttura del nuovo sistema di deduzioni. In ogni caso è stata effettuata una simulazione basata su un’ipotesi volta a minimizzare sia le perdite di gettito che gli effetti redistributivi perversi, nonché ad evitare che alcuni contribuenti potessero risultare danneggiati dalla riforma. Più precisamente:

- le detrazioni da lavoro (dipendente ed autonomo) sono state sostituite da un sistema di deduzioni (di eguale ammontare) che garantisce l’esenzione per i redditi inferiori a 7.750 €, con andamento decrescente della deduzione stessa riproducendo nel modo più accurato possibile la struttura delle detrazioni oggi vigenti.

- le detrazioni per carichi familiari e per le spese in beni meritori sono sostituite con deduzioni equivalenti, ottenute determinando il nuovo ammontare sulla base della detrazione precedentemente spettante e della aliquota del 23%.

La riforma così simulata comporta un saldo positivo praticamente per la totalità dei contribuenti, causando un impatto sul gettito IRPEF valutabile in 21,5 miliardi di €.

La distribuzione dei benefici prodotta dalla riforma non ricade però allo stesso modo su tutta la popolazione. Nel grafico 1 è riportata la ripartizione dei 21,5 miliardi di € a seconda del decile di reddito di appartenenza del beneficiario. Come si vede oltre i due terzi delle risorse (14.200 milioni di €) sono destinate al 10% degli individui con reddito imponibile più elevato (superiore ai 30.000 €), mentre il cumulo delle risorse destinate a chi percepisce meno di 20.000 € (80% dei contribuenti) ammontano a circa il 10% del complesso dei benefici (2.300 milioni di €).

In termini di grandezze medie individuali emerge che (tavola 1), a fronte di un beneficio medio generale di 596 € per percettore di reddito, la media del beneficio del decile più elevato è pari a circa 6,5 volte il valore medio. Per gli individui con reddito inferiore ai 20.000 € il beneficio medio non raggiunge i 100 €. Il gruppo degli individui che, in termini relativi, sono più penalizzati è costituito dal IV, V e VI decile, con redditi compresi tra i 9.000 e i 16.500 €; la riduzione dell’aliquota media per questi soggetti è pressoché trascurabile. Il beneficio permane comunque limitato (inferiore al 3,5% in termini di aliquota e in circa 600 € in termini monetari) anche per i redditi fino a 40.000 €, mentre oltre tale soglia la riduzione dell’aliquota media raggiunge i 10 punti. In figura 2 è riportata la curva di concentrazione dell’imposta pre e post riforma che evidenzia la maggiore equiripartizione del carico fiscale su tutti i contribuenti (riduzione della progressività del sistema) del sistema riformato.
In sostanza, come era inevitabile, la riforma premia i ricchi, dà poco ai molto poveri, penalizza fortemente i redditi medi e medio bassi.

Risulta inoltre importante rilevare che la distribuzione ai cittadini italiani di ben 21,5 miliardi di € non ricade in alcun modo sui soggetti attualmente non pagatori di imposta. Ricordiamo che la legislazione vigente garantisce assenza di imposta ai contribuenti con 6.000 € circa di reddito (lavoratori dipendenti); tale limite si eleva per gli individui con figli a carico (fino a circa 2.500 € aggiuntivi per figlio), gli anziani (fino a circa 1.200 € aggiuntivi) e i consumatori di beni meritori. In tavola 2 è riportata la distribuzione della popolazione adulta (esclusi bambini e studenti) distinta per classi di reddito e per beneficio: oltre il 90% dei soggetti adulti con reddito fino a 6.250 € non riceve vantaggi dalla riforma, mentre la percentuale di coloro che nel complesso non accedono ai benefici supera il 36%.

Qualora problemi congiunti di equità verticale e di costo della riforma suggerissero di procedere a una maggiore graduazione delle deduzioni sarebbero da considerarsi a rischio anche gli obiettivi di semplificazione del sistema. La praticabilità della semplificazione più estrema è infatti dubbia, ed è esclusa dalla delega: una detrazione omogenea di 7.750 € milioni unica per tutti comporterebbe un onere enorme per l’erario: oltre 45 milioni di € di minori entrate. Sembra dunque che, a danno della semplificazione, si renda necessaria una modulazione delle deduzioni in funzione del reddito. La modulazione delle deduzioni comporta però conseguenze negative sull’obiettivo di neutralità del sistema fiscale. Ai fini dell’imposizione effettiva infatti, una riduzione delle deduzioni al crescere del reddito comporta un aumento delle aliquote marginali medie, a tutto danno della neutralità.
Ulteriori elementi di complicazione possono inoltre giungere dalla esigenza, manifestata nella proposta di legge, di garantire l’assenza di perdite per tutti i soggetti.

Inoltre, come si è già accennato in precedenza, il passaggio da detrazioni a deduzioni mette in crisi l’attuale sistema di addizionali regionali IRPEF che vengono oggi calcolate sul reddito imponibile. Il principio di titolarità dell’imposta rischia infatti di essere messo in crisi dall’erosione di base imponibile attuato con l’istituzione di ulteriori deduzioni. Anche qualora si decidesse di trasformare le detrazioni in deduzioni equivalenti (in termini di imposta complessiva pagata dal contribuente, che rimarrebbe invariante) la base imponibile regionale rimarrebbe comunque erosa.
La scelta di mantenere invariato il meccanismo dell’addizionale comporterebbe l’esigenza di compensare il calo di gettito tramite un aumento delle aliquote regionali. Tali aumenti sarebbero però potenzialmente più ingenti per le Regioni a più bassa capacità fiscale, dove l’erosione della base risulterebbe particolarmente marcata.
Nonostante la nostra simulazione minimizzi l’impatto distributivo, riproducendo il più possibile la distribuzione attuale dell’imposta, la riduzione del grado di progressività del sistema è molto forte, con benefici limitati a favore dei redditi bassi a fronte di un impegno complessivo di spesa di entità rilevante. Una più equa distribuzione dei benefici, fermi restando i principi base della riforma, è difficilmente attuabile e comporterebbe perdite di gettito difficilmente gestibili senza comunque modificare, ma solo attenuando, il segno redistributivo della riforma. Se, infatti, si volesse garantire a tutti i contribuenti il beneficio implicito nella riduzione dell’aliquota massima dal 44% al 33% (pari ad un quarto) il costo minimo per l’erario risulterebbe pari a circa 32 miliardi di €.
Gli eventuali effetti positivi sulla crescita, invocati a sostegno dell’investimento operato dal lato della riduzione della pressione fiscale, se pure per assurdo dovessero compensare la perdita di gettito, non compenserebbero in alcun modo l’incremento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito in Italia.


4. Irpeg e tassazione delle imprese

Per la tassazione delle società di capitali, la delega prevede l’introduzione di un sistema di “holding” per le imprese (esclusione dalla tassazione delle plusvalenze e dei dividendi e correlata indeducibilità delle minusvalenze e svalutazioni), e l’abolizione del credito d'imposta sui dividendi. Viene inoltre introdotta la tassazione di gruppo (su base volontaria), anche per le consociate estere, e la indeducibilità degli oneri finanziari (sia riferiti all’acquisto di partecipazioni oltre una certa soglia sia se il rapporto fra patrimonio e debiti supera il livello consentito). L’aliquota viene portata al 33 per cento, e viene abrogata la DIT.

Buona parte della delega copia la recente riforma tedesca che, però, nasceva da esigenze completamente diverse da quelle che hanno le imprese italiane. In Germania la necessità di favorire lo smobilizzo delle partecipazioni detenute dalle imprese, in particolare di banche ed assicurazioni, ha portato il sistema fiscale a favorire il venditore (esentando le plusvalenze relative) sacrificando l’acquirente (che, ovviamente, non vede riconosciuti “fiscalmente” i maggiori valori pagati). Esportare questo sistema in Italia come modello generale valido per tutte le imprese non sembra essere in linea con la realtà italiana. Il sistema della cosiddetta "partecipation exemption” è infatti modello generale di tassazione soltanto in Germania, mentre gli altri paesi che l’hanno adottato lo hanno fatto finora con riferimento a modelli particolari.

Inoltre, va tenuto presente che la possibilità di non ostacolare, bensì di favorire lo smobilizzo della proprietà e la ristrutturazione societaria, senza la completa penalizzazione dell’acquirente, era stata realizzata in Italia con la Riforma del 1997, che prevede la possibilità di optare per una tassazione sostitutiva ridotta (19 per cento) sulle plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni di controllo e sulle differenze di valore derivanti da operazioni di ristrutturazione della proprietà (fusioni, incorporazioni, scissioni, cessioni di ramo d'azienda). Infatti, la ridotta tassazione sostitutiva unita alla possibilità di riconoscere fiscalmente i maggiori valori ai fini della tassazione futura (come costi per il calcolo delle plusvalenze derivanti da una futura cessione) e alla deducibilità dell'ammortamento dei cespiti rivalutati, consente oggi un favore equamente distribuito e, soprattutto, omogeneo e non distorsivo, rispetto alle diverse tipologie di riorganizzatone della proprietà. Con la delega questo equilibrato sistema verrà meno, con la conseguente tassazione ordinaria delle plusvalenze derivanti da operazioni diverse dalla cessione delle partecipazioni immobilizzate. Inoltre, i disavanzi di fusione e di concambio non saranno più riconosciuti fiscalmente, e le plusvalenze da cessione di un'azienda (o di un ramo d'azienda) torneranno ad essere tassati ad aliquota piena. Ed ancora, la svalutazione delle partecipazioni detenute, cui oggi è riconosciuta valenza fiscale, domani non avrà più rilevanza, con la conseguente impossibilità di fruire del conseguente abbattimento dell'imposta. In altre parole il nuovo sistema altera le condizioni di neutralità dell’imposizione.

Anche il cambiamento del regime che evita la doppia tassazione economica dei dividendi non migliora la situazione delle imprese perché viene meno la flessibilità dell’attuale sistema che il credito d’imposta consente. Infatti, i due sistemi (esenzione dei dividendi e credito d’imposta) producono, in sostanza lo stesso trattamento: entrambi, infatti intendono evitare la doppia tassazione degli utili distribuiti, una volta in capo all'impresa che li produce, una seconda in capo all'impresa che li percepisce in seguito alla distribuzione. Il sistema del credito d'imposta è però più flessibile, perché consente di far beneficiare l'azionista anche delle agevolazioni concesse alla società che ha prodotto l'utile, mentre l'esenzione degli utili percepiti esclude tale possibilità ed inoltre è limitata al 95%.

I criteri di delega, come detto, nascondono altresì il fatto che molte modifiche possono avere come obiettivo l’ampliamento della base imponibile. Come noto, infatti, la riforma tedesca ha ridotto le aliquote di prelievo (eliminando la distinzione fra utili distribuiti e non) ma ha ampliato la base imponibile, in primo luogo, attraverso la riduzione degli ammortamenti deducibili. Quella riforma, infatti, oltre alla riduzione dell’aliquota, ha portato alle imprese un aumento di base imponibile e di prelievo con il quale è stato finanziato il vantaggio che ha favorito soltanto alcuni (in particolare, banche ed assicurazioni che avevano necessità di smobilizzare le partecipazioni senza il pagamento di onerose plusvalenze). In Italia sembra si voglia seguire la stessa strada di aumentare il prelievo per molti pur di ridurlo a pochi (soprattutto grandi gruppi con realtà estere). La differenza fondamentale sta nella scelta di non rendere trasparente gli obiettivi, nascondendo le reali volontà del Governo ed “illudendo” le imprese.

In primo luogo, già la scelta dell’aliquota del 33% dimostra questa volontà di penalizzare le imprese soprattutto quelle che, aderendo allo spirito della riforma Visco, si sono capitalizzate e già oggi pagano una Irpeg inferiore (fino al minimo del 19%). Né sembra che la clausola di salvaguardia introdotta possa garantire queste imprese, perché essa opera soltanto nel periodo transitorio: in pratica le imprese che oggi hanno un prelievo inferiore al 33% a regime, dopo la riforma, avranno un prelievo maggiore sia per quanto riguarda l’aliquota che la base imponibile. Le previste riduzioni della base imponibile (in particolare l’esclusione dei dividendi), infatti, non sembrano tali da compensare i prospettati aumenti (indeducibilità interessi passivi, eliminazione di minusvalenze, svalutazioni, etc.), soprattutto se si considera che i dividendi sono già, in buona parte, esclusi da tassazione in Italia attraverso il regime c.d. “madri/figlie” in via di estensione anche al di fuori della UE. Inoltre, l’esclusione dei dividendi dalla base imponibile è limitata al 95% con una penalizzazione ulteriore che non sembra giustificata per quelli provenienti da imprese italiane. Né la ipotizzata, e improbabile, progressiva eliminazione dell’Irap è garanzia di riduzione del prelievo perché, a favore delle Regioni, è prevista la sua sostituzione con compartecipazioni o trasferimenti, il che significa che il Governo ritiene di poter recuperare il minor gettito attraverso l’Irpeg.

Fra i criteri di delega è poi previsto il contrasto all’indebitamento, con l’obiettivo di rendere non deducibili importanti componenti di costo per le imprese, in particolare quelle piccole e medie. La delega prevede la verifica del rapporto fra debiti e patrimonio netto che, se supera la soglia consentita (peraltro non specificata nella delega e quindi rimessa all’attuazione da parte del Governo, senza che il Parlamento possa esprimere il necessario indirizzo), determina la indeducibilità degli interessi passivi (in pratica essi saranno tassati con l’aliquota ordinaria del 33%). Sempre con riferimento alla indeducibilità degli oneri finanziari la delega prevede anche il confronto fra patrimonio e partecipazioni: se il valore di “libro” di queste ultime supera il patrimonio è stabilita la decurtazione degli interessi ammissibili come costi. Queste previsioni porteranno ad un sicuro e rilevante ampliamento della base imponibile che colpirà soprattutto le realtà di minori dimensioni ed a base familiare, con effetti ben più gravi di quanto avviene oggi con l’Irap. La già forte penalizzazione delle imprese deve poi essere messa in collegamento con la delega in materia previdenziale che porterà a queste stesse imprese la riduzione dei mezzi di autofinanziamento attraverso la perdita del Tfr. Inoltre va anche sottolineato come la delega aumenti la complessità del sistema: infatti ripristinando il tradizionale incentivo fiscale all’indebitamento rispetto al ricorso al capitale proprio, diventa inevitabile introdurre norme di carattere antielusivo (come sono quelle ricordate). La riforma del 1997 invece perseguiva un esplicito obiettivo di neutralità fiscale, portando progressivamente la tassazione sugli interessi e quella sui profitti allo stesso livello.

A questi elementi si deve anche aggiungere il prevedibile ampliamento della base imponibile attraverso la riduzione degli ammortamenti deducibili. Infatti, nonostante non espressamente previsti fra i criteri della delega, i coefficienti di ammortamento dei beni strumentali possono essere modificati dal Ministro dell’economia e delle finanze con un proprio decreto e senza la necessità di un intervento legislativo. Così come già realizzato in Germania, appare evidente che il rischio che corrono le imprese sia quello di vedere ridotti gli ammortamenti, peraltro in aperto contrasto le norme di incentivazione agli investimenti recentemente introdotte.

Fra gli aspetti della delega che possono essere valutati positivamente vi è la possibilità di optare per la tassazione di Gruppo. La tassazione di gruppo è un obiettivo positivo da perseguire, ma la sua realizzazione deve essere coerente e chiara. In primo luogo, il sistema attuale in pratica già consentiva la possibilità di compensare le diverse situazioni delle società all’interno dei gruppi (soprattutto attraverso la estensione del regime madri/figlie e la possibilità di svalutare le partecipazioni), consentendo le adeguate flessibilità. La scelta di non introdurre nel passato la tassazione di “gruppo”, che è assolutamente coerente con la Dit, è stata determinata da uno scarso interesse delle imprese che già potevano utilizzare le flessibilità esistenti nel sistema. L’attuale formulazione lascia invece perplessi, soprattutto con riferimento alla individuazione del criterio del controllo. Innanzitutto, come rileva la stessa relazione al provvedimento, negli altri Paesi le percentuali di controllo richieste per la collocazione all’interno di un gruppo sono molto più elevate. La delega, inoltre, oltre a consentire la piena compensazione delle basi imponibili (perdite con utili), prevede anche una attenuazione del principio della indeducibilità degli oneri finanziari per l’acquisto di partecipazioni con debito per le imprese che optano per la tassazione di gruppo. Ciò rappresenta una incentivazione (distorsiva) a favore della formazione dei gruppi.

Tuttavia, nonostante la scelta di individuare una ridotta soglia per il controllo, questa possibilità è limitata dalla scelta del Governo di prevedere per la definizione dei requisiti del controllo il “riferimento ad una partecipazione non inferiore a quella necessaria per il controllo di diritto di cui all’art. 2359, primo comma, numero 1, del codice civile”. Questo qualifica come “società controllate” le società in cui un’altra società dispone della maggioranza delle azioni con diritto di voto nelle assemblee straordinarie (in linea di massima il 50,1 % del capitale sociale o, in caso di differenti maggioranze statutariamente previste per l’assemblea ordinaria, queste differenti maggioranze). Sono così escluse tutte le forme di controllo “indiretto” dei diritti di voto. In assenza di una compiuta disciplina civilistica di “gruppo”, questa nozione di controllo, diversa da quelle utilizzate nell’ordinamento per altre fattispecie di definizione di gruppo (fra le altre quella per l’obbligo di redazione del bilancio consolidato, art. 26 d.lgs. 127/91, e quella utilizzata dal TUF, art. 93) è molto restrittiva e limita quindi ad alcune specifiche realtà la possibilità di godere degli effetti positivi della opzione (sono in pratica esclusi tutti i gruppi c.d. “a catena”).
Il consolidamento delle basi imponibili avviene poi “totalmente”, senza rapportarlo alle quota di partecipazione detenute come, invece, è previsto per il consolidato “mondiale”.

La scelta, accanto all’altra di favorire il consolidato “mondiale” come non avviene nella stragrande maggioranza degli altri paesi, sembra quindi rispondere più a logiche di interessi settoriali che ad una seria e coerente politica legislativa.

La riforma, quindi, non porterà un effettivo beneficio al sistema delle imprese italiane, considerato nel suo complesso, al di là di casi specifici. Come già detto, l'esenzione dei dividendi sarà probabilmente meno favorevole del vigente sistema dei crediti d'imposta. Né le operazioni di ristrutturazione della proprietà sono oggi penalizzate dal trattamento tributario, tutt'altro. Né sembra, in generale che oggi il problema del sistema produttivo italiano sia quello di smobiIizzare e ristrutturare la proprietà delle imprese. Le imprese italiane infatti sembrano ancora oggi soffrire, rispetto alle loro concorrenti estere, di una scarsa patrimonializzazione, dovuta anche all’incentivo fiscale all'indebitamento. Rispetto a questo problema, la DIT, che il governo intende abolire, costituiva un rimedio efficace, in quanto essa progressivamente eliminava tale incentivo, portando ad una situazione di completa neutralità fiscale.

Nel fare questo la DIT consentiva anche una progressiva riduzione del carico fiscale delle imprese (certo di quelle che conseguivano utili e li accantonavano per reinvestirli): già oggi il carico effettivo, considerando la DIT, è al di sotto del 33 per cento indicato dal Governo: a regime, sarebbe andato molto al di sotto.
Una recentissima simulazione su dati di bilancio indica che, a regime, quando la DIT fosse giunta a interessare l'intero patrimonio netto, il calo medio di pressione effettiva per le imprese esaminate sarebbe stato di circa 12 punti percentuali. Dato che già oggi come ricordato, siamo due-tre punti percentuali al disotto dell'aliquota legale del 36 per cento (che nel 2003 scenderà al 35 per effetto della finanziaria Amato) si può concludere che la DIT avrebbe comportato, nell'arco di questa legislatura, un calo assai sostanzioso delle aliquote effettive, che si sarebbero collocate al di sotto del 25 per cento, tendendo al 20. Questo vigoroso calo di pressione effettiva sarebbe stato raggiunto gradualmente dalle imprese già esistenti; era invece immediatamente fruibile per le imprese di nuova costituzione, che in conseguenza della proposta di riforma saranno invece esposte a un forte aggravio di imposizione. Questo aspetto è di particolare rilievo, se si considera che il “tasso di natalità" delle nuove imprese in Italia è abbastanza elevato e che il vantaggio era consistente indipendentemente dalla dimensione: anche le piccole imprese, quindi, avevano uno sgravio rilevante. Con l'abolizione della DIT, il calo del carico fiscale effettivo sulle imprese sarà affidato esclusivamente sulle aliquote di legge che Governo e Parlamento adotteranno negli anni futuri. Indubbiamente, si tratta di un sistema molto più "dirigista" per raggiungere lo scopo; ma è assai ragionevole supporre che non lo raggiungerà mai.

Infine, un'altra osservazione riguarda la logica della tassazione delle società da un punto di vista europeo. Sembra che il Ministro propenda per l’applicazione della c.d. CIN (capital import neutrality), per cui tutti i redditi prodotti in un paese vengono tassati con l’aliquota del paese. Ciò si può dedurre sia in riferimento al nuovo regime di tassazione delle holding, sia alla scelta di portare la tassazione dei redditi da capitale ai livelli più bassi in Europa, sia al fatto che la tassazione di gruppo per le consociate estere è opzionale. L’altra soluzione è quella della CEN (capital export neutrality), criterio in base al quale tutti i redditi di una società, ovunque conseguiti, vengono tassati in base ai criteri del paese della casa madre. Si tratta di criteri che hanno logiche e implicazioni diverse, sulle quali esiste da tempo una ampia discussione. La CIN esalta la concorrenza fiscale, e quindi la scelta del Governo sembra coerente con le visione generale della destra e con la scelta (illusione?) di trasformare l’Italia in un paradiso fiscale. Il problema nasce dal fatto che negli accordi di Feira dell’autunno 2000 sui redditi da attività finanziarie, il criterio ispiratore è quello della CEN. Nasce quindi il problema di come Tremonti possa coniugare la CIN sulle società e la CEN sui redditi finanziari.

In conclusione, quindi, la scelta di ispirarsi alla riforma tedesca, abolire la DIT e portare l'aliquota legale Irpeg al 33 per cento, con allargamento della base imponibile rischia di essere un autentico bagno di sangue per molte imprese italiane, assolutamente in contrasto con l'obiettivo dichiarato di ridurre il carico fiscale.


5. Le piccole imprese e il lavoro autonomo

All’attenzione dedicata ai grandi gruppi alle società e alla tassazione dei redditi di capitale, non corrisponde una eguale attenzione per il mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Per questi contribuenti i vantaggi deriverebbero essenzialmente dalla riduzione delle aliquote dell’Irpef e dall’abolizione dell’Irap: le due misure maggiormente “virtuali” dell’intero provvedimento, dato il loro alto costo finanziario. Al tempo stesso si propone l’introduzione del concordato preventivo triennale che rischia di consentire indebiti risparmi di imposta ad alcuni, e al tempo stesso di penalizzare fortemente le imprese in perdita attraverso un meccanismo oggettivamente molto simile alla minimum tax. Si riproporrebbe inoltre la tradizionale polemica tra redditi da lavoro dipendente e pensione (tassati in modo analitico) e altri redditi (tassati in modo forfettario), provocando così ulteriori fratture sociali.


6. La tassazione dei redditi finanziari

L’ obiettivo più evidente della riforma proposta sembra essere quello di fare diventare l’Italia un “paradiso fiscale” per i redditi di natura finanziaria (oltre –come si è visto- per le holdings) che avrebbero il prelievo più basso tra quelli europei. Il tentativo appare quantomeno, ingenuo, per un grande paese industriale che non può e non deve tendere a fare concorrenza con altre realtà che, soprattutto in ragione delle loro dimensioni, o della necessità di avviare lo sviluppo, ricorrono a strumenti di dumping fiscale. Questa scelta, peraltro, rischia di mettere nuovamente l’Italia in contrasto con gli altri paesi membri della Ue, che sulla tassazione dei redditi di natura finanziaria stanno raggiungendo un accordo proprio per evitare forme di concorrenza sleale, e si stanno orientando su livelli di aliquota minima ben più elevati.

La proposta suscita perplessità anche per altri aspetti. La misura del prelievo a cui sembra tendere la riforma, pari al 12,5%, oltre a determinare problemi di gettito, è circa la metà del previsto prelievo minimo per le imposte sui redditi (il 23%). E’ evidente quindi che, oltre a favorire coloro che possiedono ingenti masse di capitali da investire in questo modo si riapre la forbice tra finanziamento delle imprese con debito o con capitale proprio.
In ogni caso l’obiettivo della parificazione del trattamento fra titoli pubblici e gli altri redditi da capitale è corretto ed è stato l’elemento ispiratore della riforma del 1997. Esso peraltro era già stato indicato fin dall’emanazione della delega del 1997 prevedendo l’applicazione transitoria di due aliquote di imposta sostituiva (12,5% per titoli pubblici ed altri, e il 27% per le altre forme). L’obiettivo più volte dichiarato dal governo nella scorsa legislatura era quello di uniformare il prelievo a condizione che i parametri finanziari lo consentissero e in coerenza con gli accordi europei, con l’obiettivo di pervenire ad una aliquota almeno non inferiore a quella iniziale dell’Irpef (19%), secondo la logica del sistema DIT.

La scelta, poi, di abbandonare la tassazione del maturato produrrà ulteriori effetti negativi. In primo luogo, l’avvio del nuovo sistema porterà perdite di gettito, che si andranno a sommare a quelle, già rilevanti, della riduzione dell’aliquota, ma soprattutto la riforma produrrà inefficienze nel sistema. Infatti, oltre alle discriminazioni di trattamento fra i fondi (le gestioni collettive effettuate da investitori istituzionali), che saranno favoriti dal rinvio del pagamento delle imposte al momento della cessione della quota, ed il risparmio gestito individuale per il quale la tassazione avverrà in occasione del completamento di ogni singola transazione, la scelta di rimandare la tassazione all’atto del realizzo produrrà effetti di lock-in, ingessando quindi la libera scelta degli investitori con motivazioni di sola natura fiscale. Il sistema attuale è invece assolutamente neutrale.

Va anche osservato che la scelta di tassare il maturato fatta dal governo di centro-sinistra, risultava assolutamente coerente con quella compiuta dallo stesso Tremonti nel libro bianco del 1994. infatti la tassazione su base patrimoniale equivale ovviamente alla tassazione del maturato! E del resto, la scelta di tassazione del maturato con la possibilità di compensare eventuali risultati negativi è in grado anche di mantenere quella flessibilità necessaria per forme di reddito che hanno come loro caratteristica la variabilità. Non a caso la stessa ABI si è dichiarata contraria alla modifica dell’attuale sistema di tassazione che ha portato ad importanti investimenti per la loro gestione che sarebbero vanificati dalla riforma.

7. L’Irap

Per quanto riguarda l’IRAP, la delega prevede la sua soppressione senza indicare tempi e modalità (salvo la previsione della “prioritaria esclusione della base imponibile del costo del lavoro”). Al tempo stesso è previsto che il minor gettito per le Regioni sarà compensato con maggiori trasferimenti o compartecipazioni a tributi erariali. Poiché nell’art. 9 si prevede anche la “sostanziale invarianza dei saldi ... dei singoli settori istituzionali”, sembrerebbe che il minor gettito dovrebbe essere recuperato interamente a carico delle imprese. Forse attraverso l’allargamento della base imponibile dell’Irpeg? Si tratta di una ipotesi alquanto improbabile; infatti, avendo fissato l’aliquota Irpeg al 33%, ed essendo Irpeg e Irap due imposte equivalenti in termini di gettito, si tratterebbe di raddoppiare (!) l’attuale base imponibile dell’Irpeg. È più probabile che il Governo pensi in realtà a far leva sul “federalismo fiscale” per spingere le Regioni a reintrodurre i soppressi contributi sanitari per finanziare la spesa sanitaria: sarebbe un bell’esempio di innovazione e di semplificazione!


8. Conclusioni

Come già avvenuto in altre materie, anche in campo fiscale il Governo sembra ispirato dall’obiettivo prioritario di eliminare le riforme approvate dal centro sinistra. Si tratta di un approccio che non consente una particolare razionalità di intervento
Il sistema fiscale italiano è stato oggetto di radicali riforme prima nel 1972-3 e successivamente nel 1997. L’ultima riforma andava completata e integrata con una ulteriore riduzione del livello (e del numero) delle aliquote dell’Irpef e la sua evoluzione verso un sistema di imposta negativa, l’andata a regime delle DIT, e le altre correzioni ed integrazioni di minore entità, ma pretendere di abbandonarlo dopo soli 5 anni è un grave errore. Il sistema attuale infatti funziona in modo efficiente ed è stato in questi anni (compreso il 2001) l’elemento decisivo per la stabilità della finanza pubblica e la tenuta dei conti pubblici.
Anche se la portata della delega è in realtà limitata, i rischi che essa rappresenta per la finanza pubblica, e la scarsa razionalità di molti interventi sono evidenti. E non è un caso che il comunicato congiunto di Confindustria, ABI, ANIA, Confartigianato del 20 dicembre risulti molto tiepido (in realtà critico) nei confronti della riforma.


Tavola 1
Imposta e aliquote medie
Valori in € - Individui con imponibile positivo

Decili di reddito imponibile Totale imposte - media Aliquote medie per gruppo
Decile Reddito Min Reddito Max Reddito Medio Scenario BASE Scenario RIFORMA Minore imposta media Scenario BASE Scenario RIFORMA Variazione
I 0 2.000 793 43 49 -6 5,46% 6,22% 0,77%
II 2.000 7.000 4.823 159 68 91 3,30% 1,41% -1,89%
III 7.000 9.000 8.473 734 564 170 8,66% 6,66% -2,00%
IV 9.000 11.000 10.043 1.127 1.072 56 11,23% 10,67% -0,56%
V 11.000 14.000 12.921 1.762 1.717 45 13,64% 13,29% -0,35%
VI 14.000 16.500 15.694 2.570 2.509 61 16,37% 15,99% -0,39%
VII 16.500 19.500 18.312 3.364 3.096 267 18,37% 16,91% -1,46%
VIII 19.500 23.000 21.666 4.433 3.949 484 20,46% 18,23% -2,23%
IX 23.000 30.000 26.687 5.929 5.058 872 22,22% 18,95% -3,27%
X 30.000 - 48.067 14.513 10.661 3.852 30,19% 22,18% -8,01%
Media - - 16.743 3.432 2.836 596 20,50% 16,94% -3,56%




Tavola 2
Incidenza del beneficio sul complesso della popolazione adulta

Numero di soggetti
Classi di reddito Perde Indifferente Guadagna Totale
Fino a 6,250 € 993.814 15.632.516 481.120 17.107.450
Da 6.250 a 12.500 € 194.890 1.151.071 8.007.557 9.353.518
Da 12.500 a 25.000 € 609.782 5.187 13.411.578 14.026.547
Da 25.000 a 50.000 € 5.096.455 5.096.455
Oltre 50.000 € 1.017.759 1.017.759
Totale 1.798.486 16.788.774 28.014.469 46.601.729

Composizione percentuale
Classi di reddito Perde Indifferente Guadagna Totale
Fino a 6,250 € 5,81% 91,38% 2,81% 100,00%
Da 6.250 a 12.500 € 2,08% 12,31% 85,61% 100,00%
Da 12.500 a 25.000 € 4,35% 0,04% 95,62% 100,00%
Da 25.000 a 50.000 € 0,00% 0,00% 100,00% 100,00%
Oltre 50.000 € 0,00% 0,00% 100,00% 100,00%
Totale 3,86% 36,03% 60,11% 100,00%

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