mercoledì, settembre 13, 2006

Bot e azioni, aumentano le tasse Commercialista Olbia


Commercialista Olbia
MILANO. Il premier Romano Prodi era tornato sull’argomento dal palco di Caorle lunedì scorso, due giorni fa il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa aveva dato nuova conferma, ieri è toccato al viceministro dello stesso dicastero, Vincenzo Visco, puntualizzare definitivamente le intenzioni del governo in materia di rendite finanziarie: «L’aliquota sarà unificata al 20%. Adesso ce ne sono due, una al 27 e l’altra al 12,5%, e andranno tutte e due al 20, come era scritto nel programma». Dice così appena arriva alla Festa dell’Unità di Milano e specifica subito che non si tratterà di un aggravio per i risparmiatori tout court, piuttosto, tale armonizzazione «è un fatto di razionalizzazione tributaria per evitare trattamenti differenziati che portano ad arbitraggi fiscali. È una riforma all’insegna della neutralità della tassazione». Se ora è chiaro quale sarà l’aliquota unica applicata alle rendite, sono ancora allo studio del ministero le modalità con cui sarà introdotta. In campagna elettorale Prodi aveva escluso che il riordino della tassazione avrebbe interessato i Bot già in circolazione (anche se un intervento complessivo risulterebbe più incisivo da subito per le casse dello Stato) e aveva pure ventilato una franchigia per i piccoli risparmiatori. Di fatto, però, finisce uno dei pochi primati favorevoli agli investitori, in vigore dal lontano 1986 e ritoccato nel ‘98. È quello che tassa le rendite finanziarie - vale a dire gli interessi dei titoli obbligazionari (come i classici Bot), i dividendi e le plusvalenze dei titoli azionari quotati in Borsa, oltre ai rendimenti di gestioni patrimoniali e dei fondi comuni - al 12,5%. Per i fondi comuni le quote pubblicate giornalmente sono già al netto dell’imposizione fiscale, al contrario di quelli esteri armonizzati Ue che prevedono il calcolo delle tasse al momento del disinvestimento, fatto che permette loro di mostrare quotidianamente perfomance migliori.

Chi invece, almeno sulla carta, trae giovamento dall’iniziativa del governo sono i titolari di conti corrente, bancari e postali, e dei conti di deposito. L’aliquota fino a oggi è stata del 27%, ma la progressiva trasformazione del conto corrente da forma d’investimento a puro strumento di gestione del denaro, ha compresso i rendimenti allo zerovirgola, abbattendo quindi anche il gettito per il Tesoro.

Con la manovra annunciata dal governo, l’imposizione fiscale si allinea con quella già praticata in Europa, dove l’aliquota media non è lontana dal 20%: è così in Gran Bretagna; in Francia è tra il 16 e il 26% a seconda della natura del titolo, in Germania si posizione tra il 26 e il 31%. Teoricamente, non sarebbe altro che un allineamento all’Europa. Eppure in molti si chiedono quali saranno gli impatti sullo strumento finanziario più sensibile a ogni intervento fiscale: i titoli di Stato. Fosse stata fatta negli anni Ottanta, quando gli italiani andavano avanti a pane e Bot, si sarebbe risolta in una partita di giro: i tassi si sarebbero alzati per compensare l’aggravio del Fisco, quindi lo Stato avrebbe incassato di più, pagando però più interessi. Oggi, probabilmente, l’effetto sarà più contenuto perché la quantità di titoli di Stato in mano alle famiglie negli anni si è assottigliata fino ad attestarsi tra il 15 e il 20% del totale in circolazione.

Il mercato, dunque, è dominato dagli investitori istituzionali, per lo più i grandi fondi internazionali, chiamati «lordisti». Ragionano sul rendimento lordo in quanto le rendite rientrano nella tassazione ordinaria che, nel caso delle società estere, va a rimpinguare le casse del Paese di appartenenza. Per loro cambierà poco, difficile, dunque, un contraccolpo sui mercati. Possibile invece un’ulteriore disaffezione delle famiglie per uno strumento, come il Bot, che negli ultimi anni di tassi bassi, non ha saputo difendere il capitale dall’erosione dell’inflazione.

3 commenti:

Finanzas Forex ha detto...

In questi giorni vi sono state roventi polemiche sul futuro della tassazione delle attività finanziarie, ma spesso l’informazione è stata parziale o fuorviante. Proviamo a rispondere alle domande più frequenti e sfatare alcuni luoghi comuni.
I redditi di capitale sono tassati oggi in Italia? Come?

I redditi di capitale e diversi (interessi, dividendi e plusvalenze) percepiti da un normale risparmiatore (una persona fisica che non esercita attività di impresa) sono già oggi tassati nel nostro paese, ma con aliquote diverse. Sui depositi e conti correnti bancari e postali e sulle obbligazioni private con scadenza inferiore a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva dell’Irpef, prelevata alla fonte con l’aliquota del 27 per cento. Sugli interessi sui titoli del debito pubblico, sui buoni postali e sulle obbligazioni con scadenza superiore a diciotto mesi, l’aliquota è invece il 12,5 per cento. La stessa aliquota è applicata anche ai dividendi e a tutte le plusvalenze, purché, nel caso di dividendi e plusvalenze azionarie, l’azionista non detenga partecipazioni qualificate (in caso contrario una quota, pari al 40 per cento del loro valore è tassata in Irpef). L’aliquota del 12,5 per cento è applicata al risultato netto di gestione dei fondi comuni e delle gestioni patrimoniali.



Vi sono buoni motivi per cambiare la tassazione delle attività finanziarie?

La presenza di due aliquote non ha alcuna giustificazione razionale, né sotto il profilo dell’equità (perché chi ha interessi da depositi bancari o postali dovrebbe pagare di più di chi detiene obbligazioni?), né dal punto di vista dell’efficiente funzionamento del mercato (la tassazione non dovrebbe interferire sulle scelte finanziarie degli individui, che dovrebbero essere guidate solo dalla convenienza economica).

I motivi per unificare il tutto in un’unica aliquota non sono tanto quelli di recuperare gettito, quanto quelli di rendere più coerente e razionale il sistema di imposizione diretta dei redditi.



Quale sarebbe il livello ottimale per un’aliquota unica sui redditi finanziari?

Non vi è un livello ottimale. La scelta va fatta tenendo conto del tipo di sistema impositivo che si vuole adottare. Se si volesse adottare, ad esempio, un’imposizione non sul reddito ma sul consumo (“imposta sul reddito spesa”), tema spesso dibattuto nella letteratura economica, i redditi di capitale dovrebbero essere esentati. Nessun paese si è mosso però finora in questa direzione.

I redditi di capitale sono spesso tassati con regimi proporzionali, fuori dal regime progressivo che grava sui redditi di lavoro. Mediamente quindi sono meno tassati rispetto ai redditi di lavoro.

La scelta di una aliquota intermedia, fra le due attualmente esistenti (12,5% e 27%) è motivata dalla volontà di ridurre la distanza fra il prelievo sui redditi finanziari, da un lato, e quello sui redditi di lavoro (tassati con le aliquote Irpef dal 23 al 43 per cento) e delle società di capitali (tassati con l’Ires al 33 per cento e l’Irap al 4,25 per cento), dall’altro.

Finanzas Forex ha detto...

Il maggior gettito dipenderà molto dalle scelte che il governo farà per tener fede agli impegni assunti in campagna elettorale di non gravare i piccoli risparmiatori che posseggono bot e cct o buoni postali. Si tratta dunque di capire se saranno inclusi o meno i titoli di Stato già in circolazione, se sarà introdotta una franchigia o una esclusione legata al reddito. Oppure se la compensazione sarà trovata all'interno di altre misure come bonus o incentivi alle fasce deboli restituendo il maggior gettito nel settore delle politiche sociali. Nel caso di una uniformazione secca dell'aliquota al 20% si potrevve avere un maggior gettito di 4 mld che potrebbe scendere fino a 1,5 mld a seconda di come saranno modulate le esclusioni o gli sgravi. In ogni caso, un vantaggio ci sarà per i titolari di conti correnti che vedranno scendere l'aliquota dal 27 al 20%. Si tratta di un risparmio complessivo di circa 600 mln.

Comunque una eventuale limitazione della nuova aliquota ai soli titoli emessi dopo l'entrata in vigore della riforma creerebbe differenze di trattamento tra titoli di vecchia e di nuova emissione. Alla differenza attuale per durata del titolo, se ne sostituirebbe un'altra per data di emissione.

Inoltre questo periodo di transizione si protrarrebbe per circa un trentennio, creando segmentazioni sui mercati secondari. Diventerebbe più complessa anche la tassazione dei fondi comuni, tassati sul risultato di gestione. Perciò per semplicità ed efficienza del sistema sarebbe preferibile estendere la riforma anche ai titoli già in circolazione e trovare la eventuale compensazione ai piccoli risparmiatori e pensionati per altra via.

In ogno caso le stime del gettito atteso vanno prese con molta cautela, in quanto dipendono molto dall'andamento di borsa e dalle plusvalenze, che hanno di norma un andamento molto erratico.

Obiettivo dell'introduzione di una aliquota unica al 20%, mediana tra le due attualmente esistenti è anche quello da un lato di razionalizzare il prelievo sulle rendite e dall'altro di ridurre la distanza fra il prelievo sui redditi finanziari, e quello sui redditi di lavoro (tassati con le aliquote Irpef dal 23 al 43 per cento). Si tratta anche di avvicinare il prelievo agli altri paesi europei dove generalmente risulta non inferiore al 15-20% con punte del 27% in Francia, del 31,65% in Germania, al di sopra di una soglia esente, dal 20 al 40% per cento nel Regno Unito edel 28% in Finlandia.

L'aumento del prelievo sulle rendite ha anche un obiettivo redistributivo del carico fiscale in quanto il 10% delle famiglie più ricche possiede, da solo, il 40% dello stock di attività finanziarie (con l'esclusione di riserve assicurative e fondi pensione) dell'insieme delle famiglie, contro il solo 1,2% posseduto dal 10 per cento delle famiglie più povere

Finanzas Forex ha detto...

MILANO. Il premier Romano Prodi era tornato sull’argomento dal palco di Caorle lunedì scorso, due giorni fa il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa aveva dato nuova conferma, ieri è toccato al viceministro dello stesso dicastero, Vincenzo Visco, puntualizzare definitivamente le intenzioni del governo in materia di rendite finanziarie: «L’aliquota sarà unificata al 20%. Adesso ce ne sono due, una al 27 e l’altra al 12,5%, e andranno tutte e due al 20, come era scritto nel programma». Dice così appena arriva alla Festa dell’Unità di Milano e specifica subito che non si tratterà di un aggravio per i risparmiatori tout court, piuttosto, tale armonizzazione «è un fatto di razionalizzazione tributaria per evitare trattamenti differenziati che portano ad arbitraggi fiscali. È una riforma all’insegna della neutralità della tassazione». Se ora è chiaro quale sarà l’aliquota unica applicata alle rendite, sono ancora allo studio del ministero le modalità con cui sarà introdotta. In campagna elettorale Prodi aveva escluso che il riordino della tassazione avrebbe interessato i Bot già in circolazione (anche se un intervento complessivo risulterebbe più incisivo da subito per le casse dello Stato) e aveva pure ventilato una franchigia per i piccoli risparmiatori. Di fatto, però, finisce uno dei pochi primati favorevoli agli investitori, in vigore dal lontano 1986 e ritoccato nel ‘98. È quello che tassa le rendite finanziarie - vale a dire gli interessi dei titoli obbligazionari (come i classici Bot), i dividendi e le plusvalenze dei titoli azionari quotati in Borsa, oltre ai rendimenti di gestioni patrimoniali e dei fondi comuni - al 12,5%. Per i fondi comuni le quote pubblicate giornalmente sono già al netto dell’imposizione fiscale, al contrario di quelli esteri armonizzati Ue che prevedono il calcolo delle tasse al momento del disinvestimento, fatto che permette loro di mostrare quotidianamente perfomance migliori.

Chi invece, almeno sulla carta, trae giovamento dall’iniziativa del governo sono i titolari di conti corrente, bancari e postali, e dei conti di deposito. L’aliquota fino a oggi è stata del 27%, ma la progressiva trasformazione del conto corrente da forma d’investimento a puro strumento di gestione del denaro, ha compresso i rendimenti allo zerovirgola, abbattendo quindi anche il gettito per il Tesoro.

Con la manovra annunciata dal governo, l’imposizione fiscale si allinea con quella già praticata in Europa, dove l’aliquota media non è lontana dal 20%: è così in Gran Bretagna; in Francia è tra il 16 e il 26% a seconda della natura del titolo, in Germania si posizione tra il 26 e il 31%. Teoricamente, non sarebbe altro che un allineamento all’Europa. Eppure in molti si chiedono quali saranno gli impatti sullo strumento finanziario più sensibile a ogni intervento fiscale: i titoli di Stato. Fosse stata fatta negli anni Ottanta, quando gli italiani andavano avanti a pane e Bot, si sarebbe risolta in una partita di giro: i tassi si sarebbero alzati per compensare l’aggravio del Fisco, quindi lo Stato avrebbe incassato di più, pagando però più interessi. Oggi, probabilmente, l’effetto sarà più contenuto perché la quantità di titoli di Stato in mano alle famiglie negli anni si è assottigliata fino ad attestarsi tra il 15 e il 20% del totale in circolazione.

Il mercato, dunque, è dominato dagli investitori istituzionali, per lo più i grandi fondi internazionali, chiamati «lordisti». Ragionano sul rendimento lordo in quanto le rendite rientrano nella tassazione ordinaria che, nel caso delle società estere, va a rimpinguare le casse del Paese di appartenenza. Per loro cambierà poco, difficile, dunque, un contraccolpo sui mercati. Possibile invece un’ulteriore disaffezione delle famiglie per uno strumento, come il Bot, che negli ultimi anni di tassi bassi, non ha saputo difendere il capitale dall’erosione dell’inflazione.